29 aprile 2008

La confessione della signora Doyle (F. Lang, 1952)

La confessione della signora Doyle (Clash by night)
di Fritz Lang – USA 1952
con Barbara Stanwyck, Paul Douglas
**1/2

Visto in DVD.

Ritornata con la coda fra le gambe nella cittadina costiera da dove era scappata dieci anni prima con la speranza di fare fortuna in una grande città, una donna ambiziosa accetta di sposare un pescatore del luogo per il timore di invecchiare da sola, pur non amandolo: ma non riuscirà ad abituarsi a una vita troppo borghese e limitata e si farà tentare dalla corte di un amico più affascinante, progettando di fuggire con lui. Alla fine, però, saprà rinunciare all'egoismo e accettare le responsabilità di un matrimonio che dovrà necessariamente basarsi più sulla fiducia che sull'amore. In un film insolito per Lang, e non certo uno dei suoi più memorabili, la Stanwyck dà vita a un personaggio sofferto e disperato, complesso e a tutto tondo, che guarda il mondo con occhi cinici e non crede nei sentimenti: "Solitudine, paura, rispetto, noia, ecco quello che chiamano amore". A farle da contraltare, oltre ai personaggi maschili, c'è una giovane Marilyn Monroe – irresistibile in jeans o in costume da bagno – nei panni della fidanzata del fratello minore. Bravi tutti gli attori (c'è anche Robert Ryan nel ruolo dell'amante) e molto bella l'ambientazione, fra cieli plumbei e mari in tempesta che rispecchiano i tormenti del personaggio principale e una quieta calura estiva sconvolta dai continui ritrovamenti di cadaveri di bambini.

24 aprile 2008

Sangue e arena (Fred Niblo, 1922)

Sangue e arena (Blood and sand)
di Fred Niblo – USA 1922
con Rodolfo Valentino, Nita Naldi
***

Visto in DVD.

Il giovane Juan Gallardo, povero e bello, sogna di diventare un abile torero e di sposare la pura e virginale Carmen (Lila Lee), sua compagna sin dall'infanzia (molto bello il breve stacco che li mostra bambini, di spalle, mentre guardano il manifesto di una corrida). Ma quando finalmente il successo e la popolarità gli arridono, cade vittima del fascino della ricca e manipolatrice Doña Sol, demoniaca tentatrice e mangiatrice di uomini che lo conduce alla perdizione. "Nella vita di ogni uomo c'è un amore buono e uno malvagio", si giustifica Juan: ma il suo destino è ormai segnato.
Uno dei film che hanno contribuito alla nascita del mito e del culto di Rodolfo Valentino, forse il primo sex symbol maschile della storia del cinema, la cui scomparsa nel 1926, a soli trentun anni e prima dell'avvento del cinema sonoro, sconvolse le folle oceaniche – soprattutto femminili – dei suoi ammiratori. Nonostante il film sia interamente costruito attorno all'attore italiano, ed è in effetti dominato dalla sua figura forte e fragile allo stesso tempo, al suo fianco si muovono numerosi personaggi che gli si contrappongono o lo accompagnano nella ricerca della gloria o del riscatto: su tutti, il brigante Plumitas, anima gemella con il quale ha in comune molte cose, compreso il destino finale: "entrambi si guadagnano da vivere uccidendo, ma il primo riceve applausi e il secondo patisce la fame". Interessante anche il filosofo umanista che scandisce il procedere della storia con le sue massime ("La donna è stata creata per la felicità dell'uomo, ma invece ha distrutto la tranquillità del mondo"). Era la prima volta che vedevo un film di Valentino: il suo personaggio, che esibisce coraggio e forza di fronte ai tori e condivide amicizia e cameratismo con gli altri uomini, appare singolarmente debole davanti alle donne, dalle quali si fa dominare completamente. La sceneggiatura, tratta da un romanzo di Vicente Blasco Ibáñez che verrà portato sullo schermo anche da Rouben Mamoulian nel 1941 con Tyrone Power e Rita Hayworth, condanna la corrida e definisce il pubblico che si appassiona per simili spettacoli come "una bestia con diecimila teste".

22 aprile 2008

Indiana Jones e l'ultima crociata (S. Spielberg, 1989)

Indiana Jones e l'ultima crociata
(Indiana Jones and the last crusade)
di Steven Spielberg – USA 1989
con Harrison Ford, Sean Connery
**

Rivisto in DVD.

Con il terzo film del popolare archeologo-avventuriero, Spielberg e Lucas tornano alle origini e – quasi disconoscendo il secondo capitolo, che evidentemente non li aveva soddisfatti – ripropongono temi, personaggi e situazioni della prima pellicola (ci sono addirittura delle scene quasi identiche, come la lezione di Indy all'università). Il film gioca così la carta dell'autoreferenzialità: invece della narrativa avventurosa pulp e fumettistica del passato, il punto di riferimento diventa proprio "I predatori dell'arca perduta", sul quale viene innestata una trama che si basa sul rapporto conflittuale fra Indy e il padre Henry (un sornione Sean Connery), insegnante di letteratura medievale del quale finora non si era fatta menzione. Ma se il secondo episodio cercava almeno di sperimentare una propria strada, indipendente e differente dal prototipo, qui ci si rifugia nel già visto e nel poco rischioso: ecco dunque ancora un reperto di origine biblica (la coppa del sacro Graal), i nazisti e vari personaggi già visti in passato, fra recuperi inutili e fuori contesto (Sallah/Rhys-Davies) e caratterizzazioni deludenti (Brody/Elliott). Devo ammettere che rivedendo tutti e tre i film di fila – e a distanza di vent'anni – si rivaluta un po' anche questo, ma comunque rimane il più debole della serie, oltre che il più pretenzioso. Quando lo vidi per la prima volta al cinema, con la sua atmosfera "fasulla" contribuì a farmi disamorare di Steven Spielberg e a farmelo depennare dalla lista dei registi che seguivo con interesse. L'introduzione, ambientata nel 1912, serve a presentare Indy da bambino (interpretato da River Phoenix), un boy scout non troppo simpatico, e a spiegare in un colpo solo l'origine della sua fobia per i serpenti, quella dell'uso della frusta e la provenienza del suo cappello. Nel 1938 ritroviamo il nostro eroe sulle tracce del Graal e soprattutto di suo padre, sparito misteriosamente durante le ricerche della coppa. Naturamente Indy impiegherà pochi minuti a scoprire un sepolcro rimasto nascosto per sette secoli sotto il pavimento di una chiesa veneziana (ai serpenti e agli insetti dei primi due film si sostituiscono qui i topi), ma si lascerà irretire dal fascino di una bella studiosa austriaca che si rivelerà essere al soldo dei tedeschi. La parte centrale della pellicola, quella che vede i due Jones, padre e figlio, interagire direttamente per fuggire dall'Austria prima e dalla Germania poi, è forse la migliore per ritmo e situazioni: come non ricordare l'incontro con Hitler (l'adunata nazista, con tanto di falò di libri, ricorda per atmosfera e fotografia la cerimonia dei thugs del secondo film) o la fuga dallo Zeppelin? Deludente invece il climax nel deserto: il luogo dove si trova il Graal è forse il meno fascinoso di tutti i tre film, e le prove da superare sono quasi ridicole (su tutte quella della passerella di roccia). Anche la colonna sonora di John Williams non mi è parsa all'altezza delle precedenti. Nel finale scopriamo che Indy si chiama in realtà Henry, come il padre, e che Indiana era il nome del suo cane: un altro caso di autoreferenzialità, visto che questo era anche il nome del cane di George Lucas. Quando il film uscì, Spielberg assicurò che sarebbe stato l'ultimo della serie: a quasi vent'anni di distanza ha cambiato idea.

21 aprile 2008

Indiana Jones e il tempio maledetto (S. Spielberg, 1984)

Indiana Jones e il tempio maledetto
(Indiana Jones and the temple of doom)
di Steven Spielberg – USA 1984
con Harrison Ford, Karen Capshaw
**1/2

Rivisto in DVD.

Nel 1935 (un anno prima degli eventi de "I predatori dell'arca perduta", del quale è dunque un prequel più che un sequel), l'archeologo Indiana Jones fugge in aereo da Shanghai all'India settentrionale per ritrovarsi coinvolto in una pericolosa avventura: dovrà contrastare il tentativo di alcuni fanatici adoratori della dea Kalì di ridar vita alla setta dei thugs e recuperare la pietra sacra sottratta a un villaggio, il tutto con l'aiuto di un intraprendente bambino cinese e di un'imbranata cantante americana. Se il primo film voleva essere un omaggio all'atmosfera dei B-movie d'avventura di un tempo, il secondo sembra esso stesso un B-movie. Il tono è ancora più caricaturale, fumettistico e sopra le righe (come dimenticare la cena nel palazzo del marajah?), le situazioni sono irrealistiche e improponibili, e le scene girate nel tempio sotterraneo – fra sacrifici umani e luci rossastre – quasi degne di un horror. L'inizio è sorprendente ed è forse la cosa migliore della pellicola, con Kate Capshaw che canta "Anything goes" in cinese e le inaspettate coreografie da musical che fanno da sfondo ai titoli di testa. La mini-avventura introduttiva si collega stavolta senza soluzione di continuità alla trama principale, nel quale ritroviamo un Indiana Jones (stavolta il nome del personaggio, per renderlo più memorabile al pubblico, è direttamente nel titolo) piuttosto diverso da quello del film precedente, più avventuriero e meno accademico, quasi un supereroe con tanto di sidekick (il giovane vietnamita Ke Huy Quan, rivisto l'anno dopo ne "I Goonies", del quale non si faceva alcuna menzione ne "I predatori") e in compagnia di un comprimario femminile dal carattere così diverso dalla Marion del primo film, più una spalla comica che altro. Nonostante alcuni elementi in comune fra le due pellicole (gallerie, meccanismi segreti, insetti al posto dei serpenti) e alcune autocitazioni (Indy che cerca di sfoderare la pistola di fronte a due nemici con la scimitarra, anche se il film si svolge un anno prima del precedente), a tratti sembra quasi di assistere a una delle tante imitazioni dell'originale. Ma il divertimento e l'azione non mancano e la confezione è comunque di alto livello. La sceneggiatura è forse più adatta a un Peter Jackson che a uno Spielberg, che infatti ha dichiarato di considerarlo uno dei suoi film meno riusciti. A me, comunque, non dispiace! Le pietre sacre che si illuminano quando si avvicinano mi hanno ricordato le dragonball di Toriyama, mentre i nemici che si ammazzano da soli (rimanendo impigliati fra pale o ruote che girano) cominciano a essere un po' troppi. La corsa sotterranea nei vagoni ferroviari, che sembra uscita da un'attrazione di un parco dei divertimenti, era stata prevista inizialmente nel primo film ma poi eliminata in fase di sceneggiatura.

20 aprile 2008

Icarus XB 1 (Jindrich Polák, 1963)

Icarus XB 1 (Ikarie XB 1)
di Jindrich Polák – Cecoslovacchia 1963
con Zdenek Stepánek, Radovan Lukavský
**1/2

Visto in DVD con Martin, in originale con sottotitoli.

Un altro sorprendente film di fantascienza cecoslovacco, stavolta sul genere dell'esplorazione spaziale alla "Star Trek". L'Ikarie XB 1 è un'astronave con un equipaggio di quaranta persone, sia maschile sia femminile, composto più da scienziati che da militari (ci troviamo in un futuro nel quale si parla dei secoli passati come brutali e guerrafondai), in viaggio dal sistema solare verso Alpha Centauri alla ricerca di altre forme di vita. Il viaggio durerà quindici anni terrestri, ma per effetto della distorsione relativistica per l'equipaggio sarà come se fossero trascorsi solo 28 mesi. I pericoli non mancano: gli esploratori prima si imbatteranno in una vecchia astronave del ventesimo secolo, abbandonata e dotata di armi nucleari, e poi dovranno vedersela con una misteriosa Stella Nera che emette radiazioni in grado di provocare torpore e follia. Avvincente space opera di stampo heinleiniano, da un lato debitrice a "Il pianeta proibito" (c'è persino un robot simile a Robbie) e alla "Corazzata spaziale Yamato", dall'altro anticipatrice di certe cose di "2001: Odissea nello spazio" o "Solaris", in ogni caso perfettamente godibile come film a sé stante e dotato di una certa originalità stilistica. Non si respira mai aria di B-movie o di lavoro raffazzonato, anzi regia e scenografie sono di ottimo livello e il tema del viaggio verso l'ignoto si sposa con sottotrame più lievi come la descrizione della vita a bordo, con i suoi momenti di svago e di discussione, e una buona caratterizzazione dei moltissimi personaggi, nessuno dei quali assume mai al rango di vero protagonista.

19 aprile 2008

Rancho Notorious (Fritz Lang, 1952)

Rancho Notorious (id.)
di Fritz Lang – USA 1952
con Marlene Dietrich, Arthur Kennedy
***

Visto in DVD.

Alla disperata ricerca di un bandito che ha ucciso la sua promessa sposa pochi giorni prima delle nozze, un cowboy giunge in un ranch la cui proprietaria Ambra Altair, ex ballerina e cantante di saloon, offre ospitalità e un nascondiglio a rapinatori e ricercati in cambio di una percentuale del loro bottino. Forse l'omicida si nasconde fra loro?
Un western insolito e di grande atmosfera, lirico e crepuscolare, magistralmente diretto da Lang con toni barocchi e claustrofobici (cui contribuisce la bella fotografia a colori) e interpretato da una Dietrich carismatica e autoritaria come non mai, unica donna in un mondo di uomini tormentati dall'odio e dalla sete di vendetta, splendida sia in abiti sfarzosi sia in pantaloni da lavoro. Numorose le sequenze degne di nota, dalla "corsa dei cavalli" nel saloon alla giornata delle elezioni nel villaggio in cui Kennedy incontra Mel Ferrer, la "simpatica canaglia" innamorata di Ambra; dalla canzone intonata dalla donna durante la quale il protagonista scruta con odio i volti dei presenti, fino al duello finale. Il ranch della Dietrich, che in italiano si chiama Mulino d'Oro, prende il nome dal Chuck-a-Luck, una sorta di gioco d'azzardo simile alla ruota della fortuna: il titolo del film avrebbe dovuto essere proprio "The legend of Chuck-a-Luck", come quello della canzone che sin dai titoli di testa accompagna il cammino dei personaggi, ma venne cambiato in "Rancho Notorious" per volontà del produttore Howard Hughes.

17 aprile 2008

Juno (Jason Reitman, 2007)

Juno (id.)
di Jason Reitman – USA 2007
con Ellen Page, Michael Cera
**1/2

Visto al cinema Colosseo, con Hiromi.

Rimasta incinta dopo la prima esperienza sessuale con un coetaneo, la sedicenne Juno decide di portare a termine la gravidanza per poi donare il bambino in adozione a una ricca coppia sterile (interpretata da Jason Bateman e Jennifer Garner), la cui vita perfetta e la cui armonia si rivelano però soltanto apparenti. Dopo "Thank you for smoking", il figlio di Ivan Reitman conferma il suo buon inizio di carriera con un altro film leggero, simpatico e un po' ruffiano, tutto incentrato come il precedente su una protagonista eccentrica (per la sua maturità) e su un tema, se non trasgressivo, comunque "delicato" ma trattato con ironia e senso della misura. Se il tentativo di alcuni media e pseudo-politici italiani di spacciarlo per un film contro l'aborto alla prova dei fatti si dimostra del tutto privo di senso (la pellicola parla infatti di tutt'altro, e il tema dell'interruzione di gravidanza è sfiorato appena in una breve scena all'inizio), si rimane invece piacevolmente colpiti dall'assenza di un certo tipo di retorica: non c'è un solo momento in cui Juno si lasci tentare dalle gioie della maternità, anzi la sua decisione è mantenuta con coerenza e convinzione fino alla fine e mai messa in dubbio. Nel complesso, un film gradevole che si iscrive perfettamente nello stile recente della commedia indipendente americana, ma senza graffiare particolarmente. La sceneggiatura, premiata con l'Oscar, è firmata da Diablo Cody, blogger ed ex spogliarellista.

16 aprile 2008

La collina degli stivali (G. Colizzi, 1969)

La collina degli stivali
di Giuseppe Colizzi – Italia 1969
con Terence Hill, Bud Spencer
*1/2

Rivisto in DVD.

Un pistolero, ferito e braccato da alcuni inseguitori, si rifugia nel carrozzone di una compagnia circense i cui membri lo aiuteranno a sgominare una banda di farabutti che intende appropriarsi delle concessioni di una comunità di minatori. Un oggetto strano, questo film, sicuramente un corpo estraneo nella filmografia della coppia Spencer-Hill, la cui caratterizzazione fa un passo indietro rispetto al precedente "I quattro dell'Ave Maria". Bud addirittura non compare prima di metà film, e i primi trenta minuti sono noiosi e pesanti. Che la pellicola non intendesse procedere sulla strada aperta dai due precedenti film di Colizzi lo dimostra anche l'assenza di gag: non c'è nessuna scazzottata (tranne quella nel finale, ambientata nel saloon ed evidentemente posticcia, visto che è completamente fuori luogo rispetto al tono generale del film e alla cruenta sparatoria che avviene all'esterno) né una particolare interazione comica fra i personaggi. Da notare la presenza di Woody Strode (era, fra le altre cose, uno dei tre uomini che attendevano l'arrivo del treno nell'incipit di "C'era una volta il west" di Leone) e di Lionel Stander (nei panni del direttore del circo). Il termine "collina degli stivali", che nel film non viene mai usato, si riferiva a un cimitero per pistoleri, ossia per coloro che "morivano con gli stivali ancora addosso".

15 aprile 2008

Justice, my foot! (Johnnie To, 1992)

Justice, my foot! (Sam sei goon)
di Johnnie To – Hong Kong 1992
con Stephen Chow, Anita Mui
**

Visto in DVD, in originale con sottotitoli inglesi.

Stephen Chow è un avvocato brillante ed eccentrico, dalla parlantina irrefrenabile e in grado di vincere persino le cause in cui i suoi clienti sono colpevoli, ma sua moglie (una splendida Anita Mui, che si dimostra perfettamente adatta anche ai ruoli comici) lo convince a ritirarsi dalla professione perché convinta che il suo attaccamento al denaro porti sfortuna: non a caso tutti i figli della coppia muoiono ancora in fasce. Dovrà però tornare a esercitare per difendere una donna (Carrie Ng) accusata di aver avvelenato il marito e affrontare magistrati corrotti e intrighi di ogni tipo. Anche se la trama è seria e il film è essenzialmente un courtroom drama, il tono è comico: e non poteva essere altrimenti con un protagonista come Chow, pronto a farsi beffe di tutti, fra gag tipiche della commedia cantonese – a dire il vero stavolta più verbali che fisiche e spesso quasi incomprensibili per uno spettatore occidentale – e un pizzico di arti marziali (con abbondante uso di wire work). Non mancano nemmeno assurde citazioni, come quando Chow viene creduto pazzo ed è legato come Hannibal Lecter ne "Il silenzio degli innocenti". Ma il risultato convince solo a tratti e non lo annovererei né fra le migliori commedie dell'attore né fra i migliori film del regista, nonostante all'epoca fu un grande successo che contribuì a far decollare le carriere di entrambi.

14 aprile 2008

L'albero della vita (D. Aronofsky, 2006)

L'albero della vita (The fountain)
di Darren Aronofsky – USA 2006
con Hugh Jackman, Rachel Weisz
*1/2

Visto in DVD.

Già non ero fra quelli che si erano stracciati le vesti di fronte ai precedenti lavori di Aronofsky (anche se "Requiem for a dream" non mi era dispiaciuto), figuriamoci quanto poco possa avermi entusiasmato questo confuso polpettone misticheggiante, colmo di cialtronerie new age e di deliri storici e scientifici. E pensare che il regista ha lavorato parecchi anni (la gestazione del film risale al 1999 e inizialmente avrebbe dovuto intepretarlo Brad Pitt) per partorire un simile cumulo di banalità sull'amore e la morte, mescolando la leggenda della fontana dell'eterna giovinezza con il mito biblico dell'albero della vita (per una volta il titolo italiano non è a sproposito). Ma se il film è essenzialmente palloso e decisamente presuntuoso, pieno com'è di simboli vuoti e di immagini cortocircuitanti, devo anche ammettere che presenta un certo fascino dal punto di vista dell'estetica e persino della narrazione, così ipnotica, onirica e richiusa su sé stessa, e che nei giorni successivi alla visione può lasciare un retrogusto piacevole. Persino i due interpreti si salvano: Jackman veste i panni di un improbabile ricercatore che tenta disperatamente di trovare una cura per la moglie morente, scoprendo che la corteccia di una pianta sudamericana fa ringiovanire un macaco malato di tumore: la sua storia si intreccia con quella – narrata dalla moglie in un libro – di un conquistador spagnolo inviato dalla regina Isabella nel Nuovo Mondo a cercare l'albero della vita per salvare la Spagna dall'inquisizione (!) e con quella – forse sognata, forse proveniente dal futuro – di un misterioso viaggiatore astrale che medita a gambe incrociate all'interno di una bolla di sapone (sicuramente la parte più indifendibile del film). A parte i pochi pregi, resta essenzialmente una pellicola sbagliata che si merita più pernacchie che tentativi di analisi critica.

12 aprile 2008

I predatori dell'arca perduta (S. Spielberg, 1981)

I predatori dell'arca perduta (Raiders of the lost ark)
di Steven Spielberg – USA 1981
con Harrison Ford, Karen Allen
****

Rivisto in DVD, con Hiromi.

Nel 1936 l'archeologo Indiana Jones (Harrison Ford) si reca in Egitto alla ricerca dell'arca dell'alleanza, il leggendario reperto che ha contenuto le tavole dei dieci comandamenti e che fa gola anche ai nazisti per via dei suoi (supposti) poteri soprannaturali. Un film fondamentale nel rinnovare gli stilemi del cinema di avventura, pur guardando al passato e rifacendosi direttamente ai fumetti e alle riviste pulp degli anni trenta (non a caso la grafica del titolo sui manifesti richiama il logo di riviste quali "Amazing stories"). Tratto da una storia di George Lucas sceneggiata da Lawrence Kasdan, ha dato vita a un personaggio talmente popolare da diventare protagonista di altri due film (e un quarto è in arrivo fra pochi mesi), di una serie televisiva, di numerosi videogiochi e soprattutto di innumerevoli imitazioni e parodie non solo cinematografiche. Gli elementi che lo caratterizzano visivamente (compreso il cappello e la frusta) lo rendono probabilmente uno dei character più riconoscibili della storia del cinema. E pensare che a interpretarlo non sarebbe dovuto essere Ford, bensì Tom Selleck, che rifiutò la parte perché troppo impegnato con le riprese del telefilm "Magnum P.I.". Spielberg fonde alla perfezione avventura e azione, ritmo e humour, inseguimenti e acrobazie, il fascino del mistero soprannaturale e quello della storia, cambiando anche più registri stilistici: il professor Jones si trasforma da compassato accademico in un vero e proprio avventuriero (come dimostra subito la bella sequenza iniziale dell'idolo nella giungla), protagonista di sequenze che recuperano l'ingenuità dei bei tempi andati (la sfera di roccia che gli rotola dietro, citazione da una storia di Carl Barks), di meravigliosi momenti umoristici (il nemico con la scimitarra nel mercato al Cairo o la gruccia appendiabiti del nazista), di episodi da brivido (i serpenti nel pozzo delle anime, autentici perché all'epoca non si parlava ancora di CGI, e naturalmente l'apertura dell'arca), di tesissime scene d'azione (l'inseguimento sul camion) e di battute memorabili ("Non sono gli anni... sono i chilometri!"). Fra i comprimari, oltre alla bella Karen Allen, sono da segnalare John "Gimli" Rhys-Davies, Denholm Elliott e un debuttante Alfred Molina ("Adios, imbecille!"). Degna di menzione anche la colonna sonora di John Williams e indimenticabile tanto l'incipit, con il vecchio logo della Paramount che si trasforma in un'autentica montagna (giochino che sarà ripetuto nei capitoli successivi), quanto il finale, con l'immenso magazzino di scatoloni (un omaggio a "Quarto potere"). Nei piani iniziali avrebbe dovuto trattarsi di una pellicola a basso budget, praticamente un B-movie, ma naturalmente Lucas e Spielberg si fecero prendere la mano. Il film è stato poi rieditato con il titolo "Indiana Jones e i predatori dell'arca perduta", per coerenza con i capitoli successivi. Il nome Indiana era quello del cane di George Lucas, mentre il cognome Jones sarebbe stato scelto il giorno stesso dell'inizio delle riprese: in origine il personaggio avrebbe dovuto chiamarsi Indiana Smith. Una curiosità personale: ricordo ancora la campagna di lancio del film (avevo undici anni), con il claim "Il ritorno della grande avventura" sui manifesti che mi aveva fatto erroneamente pensare che si trattasse di un seguito del film "La grande avventura" di Stewart Raffill.

11 aprile 2008

I quattro dell'Ave Maria (G. Colizzi, 1968)

I quattro dell'Ave Maria
di Giuseppe Colizzi – Italia 1968
con Terence Hill, Bud Spencer
**1/2

Rivisto in DVD.

Dopo l'ottimo riscontro del film precedente, "Dio perdona... io no!", Colizzi prova subito a riproporre la stessa coppia di protagonisti che, stando agli screen test, quando comparivano insieme sullo schermo suscitavano l'entusiasmo del pubblico. Grazie al finanziamento di alcuni produttori americani, stavolta il regista può permettersi un budget decisamente più elevato e l'ingaggio di un attore di richiamo come Eli Wallach, già coprotagonista de "Il buono, il brutto e il cattivo" di Sergio Leone. Nei titoli e nella locandina i nomi di Hill e di Wallach sono davanti a tutti gli altri, ma a tratti il mattatore è proprio Bud Spencer, la cui alchimia con il compagno comincia a decollare anche se le dinamiche fra i due sono ancora limitate. La pellicola è dichiaratamente un sequel della precedente (all'inizio vediamo Bud e Terence restituire il denaro rubato da Bill Santantonio e "riscuotere" la ricompensa), ma il tono è meno violento – pur se sparatorie e morti continuano a non mancare – e più ironico e scanzonato, anche per la presenza di Wallach nei panni di Cacopulos, pulcioso e inaffidabile bandito di origine greca, inizialmente rivale dei due amici e poi loro alleato in cerca di vendetta nei confronti di chi l'aveva tradito anni prima. Ai tre protagonisti si affianca, non si capisce bene perché, un pistolero e acrobata di colore (Brock Peters): insieme, i quattro sconfiggeranno i cattivi in un duello "all'ora dell'Ave Maria". Anche se l'ambientazione è ancora quella di un tipico western all'italiana, si intravedono squarci del "genere universale" del tutto particolare dei futuri film di Spencer e Hill: c'è persino la prima scazzottata in due contro molti. La trama presenta qualche lungaggine di troppo, è tutt'altro che compatta e procede per spunti ed episodi quasi slegati l'uno dall'altro (l'introduzione dei personaggi, la prima vendetta in Messico, lo scontro nella casa da gioco con la roulette truccata). Guardandolo, mi sono trovato a apprezzare e a rimpiangere il bel doppiaggio di quei tempi (indimenticabile la voce mellifua di Wallach: "e io miagolavo...") e un periodo in cui persino gli attori italiani accettavano di far sostituire la propria voce per risultare più adeguati (prendi esempio, Bellucci!).

10 aprile 2008

Dio perdona... io no! (G. Colizzi, 1967)

Dio perdona... io no!
di Giuseppe Colizzi – Italia 1967
con Terence Hill, Bud Spencer
**

Rivisto in DVD.

Dopo aver scoperto che il responsabile di una sanguinosa rapina al treno è un vecchio amico della cui morte – soltanto inscenata – si credeva responsabile, un avventuriero parte alla sua ricerca per vendicarsi e per sottrargli il bottino. Lo aiuterà un altro compare che ora lavora per la compagnia che ha assicurato il treno. Girato in Almeria quando il western all'italiana – dopo gli exploit di Leone – sembrava in fase calante, è il film che ha contribuito a rivitalizzare il genere ma soprattutto quello che ha dato vita alla coppia Bud Spencer-Terence Hill, peraltro nata in modo piuttosto casuale: Carlo Pedersoli, ex olimpionico di nuoto, venne scelto per debuttare sullo schermo soltanto in funzione della sua stazza, ma dimostrò buone doti recitative e soprattutto un eccellente physique du rôle; Mario Girotti sostituì a riprese già iniziate il protagonista ingaggiato in origine, Peter Martell, che si era infortunato al piede durante una lite con la fidanzata (!). Anche i loro nomi d'arte nascono con questa pellicola, su richiesta dei produttori che volevano vendere il film all'estero, e sembravano destinati a non essere riproposti in futuro. I due attori, a dire il vero, non costituiscono ancora una vera e propria coppia: compaiono raramente insieme sullo schermo (ma quando lo fanno mettono già in mostra un buon affiatamento) e sono soltanto due delle tre pedine sulle quali si regge una trama non memorabile, eppure sono già uniti dal consueto rapporto di amicizia/rivalità, incarnano ruoli ben delineati e offrono persino la loro prima scazzottata all'interno di un film che per il resto è ricco di morti violente (basti pensare che si apre con l'immagine di un treno pieno di cadaveri) e sicuramente meno ironico e scanzonato dei successivi. La pellicola doveva inizialmente intitolarsi "Il cane, il gatto e la volpe", ma il titolo venne cambiato all'ultimo momento, dando origine alla moda dei rimandi religiosi nei nomi degli spaghetti western (cui non si sottrassero Spencer e Hill con il successivo "I quattro dell'Ave Maria" e naturalmente con i due "Trinità"). Durante il film, infatti, la battuta del titolo non viene mai pronunciata né – a parte la musica, con un coro sulle parole del "Dies irae", e il nome del cattivo, Bill Santantonio – ci sono riferimenti di qualsivoglia tipo alla religione.

Doppio gioco (Robert Siodmak, 1949)

Doppio gioco (Criss cross)
di Robert Siodmak – USA 1949
con Burt Lancaster, Yvonne De Carlo
**

Visto in DVD.

Un uomo torna in città dopo una lunga assenza e cerca di riallacciare i rapporti con l'ex moglie, che nel frattempo si è sposata con un gangster (Dan Duryea). Per amor suo accetta di entrare nella banda e di partecipare come complice a una rapina al furgone portavalori di cui è l'autista, ma all'ultimo momento ci ripenserà e cercherà di fare il doppio gioco: troppo tardi. Sinceramente speravo che questo film mi piacesse di più, visto che gli altri noir di Siodmak li avevo graditi parecchio (soprattutto "La scala a chiocciola" e "I gangster"). Più che sull'azione e la suspense, la pellicola si concentra sulla costruzione psicologica del personaggio di Lancaster, un uomo disposto a perdersi completamente per amore e a rinunciare a ogni cosa, compresa la propria onestà, per una donna che sembra sfuggirgli e della quale si faticano a comprendere sentimenti e motivazioni. Non si tratta di una classica dark lady calcolatrice, infatti, ma di una semplice opportunista. Tutta la prima parte della vicenda viene raccontata in un lungo flashback, e la regia ha alcuni buoni momenti (l'incontro alla stazione, per esempio, permeato dal caso e dal destino), anche se le atmosfere non sono sempre memorabili e i colpi di scena sono poco efficaci. Il doppiaggio dell'epoca appioppa in maniera ridicola nomi italiani a tutti i personaggi.

9 aprile 2008

Frank Costello faccia d'angelo (J.P. Melville, 1967)

Frank Costello faccia d'angelo (Le samouraï)
di Jean-Pierre Melville – Francia 1967
con Alain Delon, François Périer
***1/2

Rivisto in DVD.

Rarefatto e sospeso, quasi muto e quasi in bianco e nero (la fotografia è a colori, sì, ma i toni di grigio e di beige predominano e l'atmosfera da noir pervade ogni ambiente e ogni personaggio), è l'indimenticabile ritratto di un killer solitario e metodico, che va incontro al proprio destino senza mostrare disperazione né accettare compromessi. Alain Delon, con la sua espressione immutabile e gli occhi di ghiaccio, è perfetto nel tratteggiare un personaggio freddo e silenzioso, che vive in un appartamento spoglio e ha come unico compagno un uccellino in gabbia, e che dopo aver commesso un omicidio in un locale notturno fugge inspiegabilmente senza eliminare la giovane pianista di colore che lo ha visto in volto. Nonostante tutto il suo alibi regge, meticolosamente costruito con l'aiuto della bella Jane (interpretata dalla moglie Nathalie Delon), ma la polizia continua a indagare su di lui e anche i suoi mandanti decidono di eliminarlo. La versione italiana modifica il titolo del film (nonché il nome del protagonista, che in originale si chiamava Jeff e non Frank), aggiunge una musica bossanova sopra il silenzio e il cinguettio dell'uccellino, ed elimina anche il cartello introduttivo nel quale Melville aveva voluto inserire una finta citazione del Bushido ("Non vi è solitudine più profonda di quella del samurai, se non quella di una tigre nella giungla, forse...), cancellando così del tutto il riferimento ai guerrieri giapponesi e alla loro aderenza a un codice di regole e di doveri che tanto ricorda, appunto, i protagonisti di molte pellicole orientali, il Kitano di "Sonatine" e "Hana-bi" in primis. Sono innumerevoli comunque i film e gli autori che hanno tratto ispirazione dalla pellicola: persino alcuni insospettabili, tanto il loro stile è diverso da quello di Melville, come John Woo (la trama di "The killer" gli assomiglia molto) e la coppia Bud Spencer/Terence Hill (ricordate il sicario Paganini in "Altrimenti ci arrabbiamo"?), oltre a naturalmente a Jim Jarmusch, che nel suo "Ghost dog" recupera il parallelo fra il codice del killer e quello dei samurai.

8 aprile 2008

Una notte al museo (S. Levy, 2006)

Una notte al museo (Night at the museum)
di Shawn Levy – USA 2006
con Ben Stiller, Robin Williams
**

Visto in DVD, con Hiromi.

Nel museo dove Ben Stiller è appena stato assunto come guardiano notturno, di notte la storia prende vita: a causa di un'antica maledizione egiziana, infatti, gli scheletri di dinosauro, gli animali impagliati, le statue di cera e i soldatini dei diorama si animano e se ne vanno in giro per le stanze e per i corridoi. L'idea è carina, ma la sceneggiatura non riesce a sfruttarla a dovere e tutte le sorprese vengono bruciate nei primi trenta minuti: dopo ci sono solo capitomboli, inseguimenti e situazioni prevedibili (per l'ennesima volta un padre divorziato che deve riconquistare la fiducia del figlio!) che rendono il film decisamente più infantile rispetto alla media di Stiller. Non a caso producono Chris Columbus e Stephen Sommers (quello de "La mummia"). In mano a un regista come Joe Dante forse ne sarebbe potuto uscire qualcosa di più interessante, ma chi si accontenta di poco si divertirà comunque: agli altri consiglio una diversa pellicola ambientata in un museo: "Arca russa" di Sokurov! La presenza di Robin Williams, che interpreta la statua del presidente Theodore Roosevelt, evoca "Jumanji". Da sottolineare comunque la partecipazione degli anziani Dick van Dyke e Mickey Rooney (oltre al meno noto Bill Cobbs) nei panni dei precedenti guardiani notturni. Naturalmente è già in programma un sequel.

7 aprile 2008

2022: i sopravvissuti (R. Fleischer, 1973)

2022: i sopravvissuti (Soylent green)
di Richard Fleischer – USA 1973
con Charlton Heston, Edward G. Robinson
***1/2

Rivisto in VHS.

Periodo di lutti, questo: è scomparso anche Charlton Heston, che voglio ricordare attraverso una delle sue interpretazioni più memorabili in uno dei miei film di fantascienza preferiti. Tratto da un romanzo di Harry Harrison noto in Italia con il titolo "Largo! Largo!", la pellicola offre il disperato ritratto di una società futura in cui la sovrappopolazione ha distrutto tutte le risorse disponibili, inquinato irrimediabilmente il mondo e sterminato la vita animale e vegetale, anche con il contribuito di un riscaldamento globale che ha annullato le stagioni dando vita a un'estate torrida che dura tutto l'anno. Il film è ambientato in una New York con 40 milioni di abitanti (che all'epoca sembravano tantissimi... e dire che oggi ci sono megalopoli, soprattutto in Asia, le cui aree metropolitane si stanno avvicinando a grandi passi a quella cifra!), dove l'aria è inquinatissima (Fleischer applica un filtro verde all'obiettivo), l'energia e il cibo sono razionati e non si produce più nemmeno cultura: i libri non vengono più stampati e le conoscenze sono affidate a biblioteche umane, i cosiddetti "uomini-libro"; di cinema e televisione non c'è traccia, mentre solo i più ricchi possono permettersi svaghi come vetusti videogiochi (che forse nei primi anni settanta non sembravano così vetusti!); soltanto a chi sceglie una nobile forma di eutanasia è permesso di godersi gli ultimi istanti della propria vita con un filmato che mostra le meraviglie ormai scomparse che il pianeta offriva un tempo ai suoi abitanti. Gli uomini si nutrono essenzialmente di soylent, un concentrato di alghe e plancton ad alto potere nutritivo, e l'azienda che lo produce e distribuisce governa praticamente il mondo. Heston, nei panni dell'agente di polizia Thorn, indaga sul misterioso omicidio di un potente politico (il film è strutturato quasi come un giallo), scoprendo poco a poco una terribile verità. Il grande Edward G. Robinson, al suo ultimo film, interpreta Sol Roth, "uomo-libro" di fiducia di Thorn e protagonista della scena più toccante del film, quella in cui si "reca al tempio". Leigh Taylor-Young è invece la giovane ragazza "in dotazione" all'appartamento in cui viveva l'uomo assassinato, della quale Thorn si innamora. L'uso di tutti questi eufemismi ("andare al tempio", in originale "going home", per l'eutanasia; "ragazza in dotazione" per la prostituzione, e così via) contribuisce alla descrizione di una società distopica non poi così diversa dalla nostra: e proprio la paura che il tragico mondo descritto dal film possa in fondo un giorno avverarsi rende la pellicola così avvincente. Bello l'incipit, con fotografie che seguono il percorso dell'umanità, dei consumi e dell'urbanizzazione dalla fine dell'800 fino ai giorni nostri, e grandioso il finale.

6 aprile 2008

Meltdown (Wong Jing, 1995)

Meltdown – La catastrofe (Shu dan long wei, aka High Risk)
di Wong Jing – Hong Kong 1995
con Jet Li, Jacky Cheung
**1/2

Rivisto in DVD, con Giovanni.

Ho un po' di nostalgia per quel periodo felice del cinema di Hong Kong in cui si realizzavano pellicole come questa, che spaziavano senza vergogna dall'azione pura e frenetica in stile "Die hard" (indirettamente citato), coreografata dal grande Yuen Kwai, alla comicità stupida e volgarotta che costituisce il marchio di fabbrica di Wong Jing. A dire la verità, quando l'avevo visto per la prima volta, su un video-cd di importazione e in lingua originale, mi era piaciuto di più. Stavolta, in italiano e con la brutta musica rap che ci hanno aggiunto gli americani, mi è sembrato meno divertente, ma resta comunque uno spettacolone ingenuo ed efficace. Jet Li interpreta un ex soldato dei servizi speciali che, dopo aver perso la moglie in un attentato terroristico, si ricicla come guardia del corpo e deve affrontare una banda di criminali che ha sequestrato un intero grattacielo. Gli ruba però spesso la scena Jacky Cheung, il cui personaggio di attore di arti marziali è una parodia di Bruce Lee (i nunchaku e la tutina gialla) ma soprattutto una feroce satira di Jackie Chan (il divo che non utilizza stuntmen), per il quale era stata scritta originariamente la parte e che avrebbe litigato con il regista sul set di "City Hunter": peccato, sarebbe stata la prima apparizione di Jackie e Jet fianco a fianco sullo schermo! Degno di nota il cast femminile: si va dalla procace Chingmy Yau, compagna e musa del regista (che veste i panni di una improbabile giornalista), alla timida Charlie Yeung, fino alla bella e cattiva Valerie Chow. Stranamente per Li ci sono poche arti marziali ma molte scene con automobili (nell'ascensore!), elicotteri e pistole.

Pasolini, un delitto italiano (M. T. Giordana, 1995)

Pasolini, un delitto italiano
di Marco Tullio Giordana – Italia 1995
con Carlo De Filippi, Giulio Scarpati
**

Visto in DVD.

Il 2 novembre 1975 veniva ritrovato sul lungomare di Ostia il cadavere di Pier Paolo Pasolini, ucciso dal giovane Pino Pelosi. Da quella notte prende il via questo film di Giordana, che ricostruisce (con l'aiuto anche di filmati d'epoca) le fasi successive dell'indagine fino al processo di primo grado presso il tribunale minorile, ed è essenzialmente un film giudiziario o un legal thriller. I protagonisti, l'avvocato di famiglia e un coriaceo ispettore, sono convinti che Pelosi non abbia agito da solo e che dietro l'omicidio possano nascondersi frange dell'estrema destra romana o addirittura nomi potenti della politica (Pasolini nei suoi ultimi anni aveva pesantemente attaccato l'establishment, proponendo provocatoriamente addirittura di processare la Democrazia Cristiana). Ma le autorità insabbieranno l'indagine. Pur interessante per l'argomento che tratta, Il film non coinvolge particolarmente, indeciso com'è fra il documentario e la fiction (con volti come Claudio Amendola e Nicoletta Braschi in parti minori), e soprattutto non rende alcuna giustizia all'arte di PPP, che rimane un "oggetto" misterioso ed estraneo. Buona invece la descrizione della Roma dell'epoca, con l'odio diffuso verso i gay e la "degradazione antropologica" che Pasolini stesso lamentava. Il finale, nel quale lo scatolone con i materiali dell'indagine viene portato nei meandri dell'immenso archivio del tribunale, ricorda quello de "I predatori dell'arca perduta" di Spielberg.

5 aprile 2008

Pandora (Albert Lewin, 1951)

Pandora (Pandora and the Flying Dutchman)
di Albert Lewin – USA 1951
con Ava Gardner, James Mason
***

Visto in divx alla Fogona, con Marisa.

Mi piace andare a recuperare vecchi film hollywoodiani quasi dimenticati. Questa è una pellicola insolita e tragica, barocca e surreale, romantica ma senza molti termini di paragone (soprattutto per l'epoca), che gioca con i miti, le leggende e con il concetto di amour fou, ben rappresentato dalla frase che i protagonisti ripetono per tutto il film: "la misura di un amore dipende da quello cui si è disposti a rinunciare per esso". In un'esotica cittadina costiera della Spagna, la bellissima americana Pandora Reynolds attira le attenzioni di quasi tutti gli uomini della ristretta comunità che frequenta. Indifferente a tutti ma contesa in particolare da un pilota automobilistico e da un altezzoso torero, Pandora si innamora dell'enigmatico navigatore Hendrik van der Zee, ignorando che si tratta del leggendario Olandese Volante, immortale da oltre tre secoli e condannato a espiare le proprie colpe vagando in eterno per i mari fino a quando non troverà una donna disposta a morire per lui. Naturalmente, essendosi invaghito a sua volta di Pandora (reincarnazione della sua fiamma precedente?), l'Olandese vorrebbe allontanarla da sé per non costringerla a sacrificarsi, preferendo rinunciare così alla propria redenzione: ma il destino non potrà che spingerli di nuovo insieme. Le scenografie, condite da reperti archeologici di ogni tipo (alcune scene, come quella del ballo notturno fra statue e colonne, ricordano i dipinti di De Chirico), sono suggestive e coloratissime. Notevole anche il racconto delle origini dell'Olandese, narrato in un flashback nel flashback.

4 aprile 2008

Le ultime 36 ore (G. Seaton, 1965)

Le ultime 36 ore (36 Hours)
di George Seaton – USA 1965
con James Garner, Eva Marie Saint, Rod Taylor
**1/2

Visto in divx alla Fogona.

Brillante thriller bellico-spionistico, tratto da un racconto di Roald Dahl e basato su un'idea semplice e originale: nel 1944, alla vigilia dello sbarco in Normandia, i tedeschi rapiscono un maggiore americano, uno dei pochi a conoscere tutti i dettagli dell'invasione (e in particolare il luogo in cui avverrà), e lo trasportano, privo di sensi, in un finto ospedale statunitense ricostruito nel cuore della Germania. Qui gli fanno credere di trovarsi già nel 1950, che la guerra è finita da tempo, naturalmente con la vittoria americana, e che lui – "invecchiato" ad arte – soffre di amnesia. Fra giornali finti, trasmissioni radiofoniche artefatte e una miriade di attori che recitano per ingannarlo (proprio come in "The Truman Show"), il protagonista cade facilmente nell'inganno e, confidandosi con un affabile medico (nato negli Stati Uniti ma trasferitosi in Germania a sedici anni) e con una graziosa infermiera (proveniente da un campo di concentramento, forse il personaggio più debole della pellicola), si lascia così sfuggire il prezioso segreto. "Datemi un americano qualsiasi e in 36 ore ne farò un traditore", recitava la frase di lancio del film, che forse sarebbe stato più accattivante se il gioco non fosse stato svelato subito allo spettatore. La parte finale, dopo la fuga, è infatti forse un po' troppo lunga e meno interessante di quella ambientata nel falso ospedale di campo. La versione che ho visto era ricolorata.

3 aprile 2008

Un bacio romantico (Wong Kar-wai, 2007)

Un bacio romantico (My blueberry nights)
di Wong Kar-wai – Hong Kong/USA 20007
con Norah Jones, Jude Law
**

Visto ieri al cinema Colosseo, con Hiromi.

Il primo film di Wong Kar-wai in lingua inglese, nonostante il regista mantenga il proprio stile, i temi e le ambientazioni preferite, mi ha un po' deluso. Non solo non sembra offrire molto di nuovo rispetto ad alcune pellicole precedenti (a tratti sembra quasi una versione made in USA di opere come "Hong Kong Express" e "Angeli perduti"), ma è anche meno efficace nel mettere in scena i soliti personaggi in cerca d'amore o di consolazione e le loro piccole manie, le abitudini, i sogni e i desideri. La protagonista, la cantante Norah Jones (al suo esordio sullo schermo), reduce da una delusione d'amore, trova conforto nell'amicizia con il barista Jude Law, nel cui locale si reca ogni sera all'ora di chiusura per scambiare qualche chiacchiera e divorare la torta al mirtillo che – immancabilmente – nessun cliente ha ordinato durante la giornata. Partirà poi per un anno di vagabondaggi da una costa all'altra degli Stati Uniti, lavorando come cameriera in diner e locali notturni e incrociando i destini di altri personaggi più o meno tormentati: un poliziotto alcolizzato (David Strathairn) abbandonato dalla moglie (Rachel Weisz) e una giovane giocatrice di poker (Natalie Portman) che non si fida delle altre persone. Alla fine la ragazza non potrà che tornare al punto di partenza, al locale newyorkese di Jude Law, dove i due si scambieranno il bacio che i distributori italiani hanno voluto proditoriamente mettere nel titolo della pellicola. Senza il fidato Christopher Doyle alla fotografia (ma Darius Khondji è altrettanto colorato, anche se più iperrealista), e affidandosi a una ricca colonna sonora rhythm'n'blues (a fianco di pezzi classici e di brani inediti di Ry Cooder e della stessa Jones c'è persino un rifacimento del tema di "In the mood for love"), Wong traspone le sue storie in un ambiente americano che sembra disposto ad accoglierle bene: peccato che i personaggi siano poco interessanti e che quello più promettente, ossia Jude Law, funga soltanto da cornice a tutta la vicenda. L'inizio del film, nel suo bar, è infatti la parte migliore di una pellicola che poi si perde in un viaggio a vuoto.

2 aprile 2008

Rififi (Jules Dassin, 1955)

Rififi (Du rififi chez les hommes)
di Jules Dassin – Francia 1955
con Jean Servais, Carl Möhner
***

Rivisto in DVD.

Due giorni fa è morto Jules Dassin, e come sempre non c'è modo migliore di ricordare un regista scomparso che quello di rivedersi uno dei suoi film. Americano di nascita e autore di pellicole come "Forza bruta" e "La città nuda", Dassin fu costretto a trasferirsi in Europa dopo essere finito sulla lista nera del maccartismo: questo "Rififi" (il termine, che fa parte del gergo della malavita, si riferisce a una lotta senza esclusione di colpi) è il suo primo film francese, un noir che vinse il premio per la miglior regia al festival di Cannes e avrebbe influenzato numerosi film "di rapine" successivi (compreso, probabilmente, "I senza nome" di Melville): la tesissima scena centrale, ovvero l'indimenticabile sequenza della rapina alla gioielleria, è completamente muta e dura quasi trenta minuti (anche di più se la facciamo partire dal momento in cui tre dei quattro protagonisti salutano silenziosamente le rispettive compagne e terminare nell'istante in cui contemplano il bottino). Anche se il film non è perfetto (i personaggi sono un po' stereotipati, ma dopo tutto fa parte del gioco: siamo di fronte a un noir archetipico), quel che risalta sono i dialoghi di Auguste Le Breton (che contribuì all'adattamento dal suo romanzo, uno dei capostipiti del filone) e naturalmente la regia, oscura, efficace e ricca di piani sequenza ma anche di primi piani sui volti degli attori, quasi tutti poco noti. Il protagonista della storia è il vecchio gangster Tony, detto "il laureato", un duro veterano che segue sempre le regole. Malato dopo cinque anni di carcere (che ha scontato pur di non tradire gli amici) e incattivito perché nel frattempo la sua donna Madò lo ha lasciato, Tony progetta un formidabile colpo a una gioielleria in compagnia di tre complici: il suo giovane protetto Joe, il loquace italiano Mario (Robert Manuel) e l'elegante e donnaiolo Cesare "il marsigliese", specialista in casseforti (Dassin stesso, che recita con lo pseudonimo di Perlo Vita: ma nella versione originale è "il milanese"!). Dopo il colpo, un'imprudenza di Cesare (che regala un anello alla ballerina di un night club, interpretata da Magali Noël) li tradirà: e una banda rivale cercherà di impossessarsi del bottino sequestrando il figlioletto di Joe e scatenando l'ira di Tony. Molto bella, nel finale, anche la sequenza del bandito che guida ferito attraverso tutta la città per riconsegnare il bambino alla madre. La scena della morte di Cesare non era prevista nella sceneggiatura originale: Dassin la aggiunse per alludere alla tragica situazione della lista nera di Hollywood e al prezzo da pagare per il "tradimento di amici e colleghi".