20 settembre 2014

Figlio di nessuno (Vuk Ršumovic, 2014)

Figlio di nessuno (Ničije dete)
di Vuk Ršumovic – Serbia 2014
con Denis Murić, Pavle Čemerikić
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Visto al cinema Eliseo, in originale con sottotitoli
(rassegna di Venezia).

Nella primavera del 1988, fra le montagne della Bosnia, alcuni cacciatori trovano un bambino abbandonato e cresciuto allo stato selvaggio insieme ai lupi. Portato in città e registrato col nome di Haris Pućurica, il ragazzo viene trasferito in un istituto per minori di Belgrado per tentarne un difficile reinserimento nella società. E in effetti, nel corso degli anni, impara con fatica a camminare, a parlare, a "socializzare" (almeno fino a un certo punto) con altri suoi coetanei. Ma nel 1992 la dissoluzione della Yugoslavia lo riporterà in Bosnia, dove finirà a combattere fra i boschi durante la guerra. E come in un cerchio che si chiude, dopo aver assistito alla follia e alla distruzione perpetrata dall'uomo, tornerà fra le sue montagne e con i suoi lupi. Film dalla una struttura episodica e ricco di silenzi (il protagonista praticamente non parla mai: anche quando impara a dire qualche parola, le spende con assoluta parsimonia), i cui toni sobri e (neo)realisti nascondono metafore e significati, soprattutto in relazione al conflitto balcanico, all'insensatezza della guerra e all'impotenza dell'uomo rispetto alle ineluttabili correnti del mondo esterno. Haris – chiamato da tutti con il nomignolo di "Pućke" – attraversa quasi con inerzia ogni fase della crescita e della vita sociale: l'apprendimento, la crescita, le amicizie (con Žika, ragazzo di poco più grande di lui, il primo che gli manifesta un po' di attenzione e di affetto), il desiderio sessuale e l'amore (per Alisa, ragazza cresciuta nell'istituto e poi ballerina in un night club), il lavoro, la discriminazione (quando scoppia la guerra nei Balcani, il suo nome musulmano ne fa immediatamente un "nemico"), l'emigrazione forzata, la guerriglia; è trascinato da una parte all'altra da vicende più grandi di lui, si attacca disperatamente al poco che ha (che si tratti di una biglia o di un singolo amico), assiste a grandi e piccole tragedie, vede morire amici e conoscenti, e alla fine è ricondotto dal destino nel luogo a lui più consono, in mezzo alla natura e lontano dal caos e dalla follia dell'uomo. Se lo spunto di partenza è dunque lo stesso del "Ragazzo selvaggio" di Truffaut o del "Kaspar Hauser" di Herzog, lo sviluppo va oltre: ma nel procedere, con una narrazione priva di retorica e di accondiscendenza, il protagonista – interpretato da un eccezionale Denis Murić, che dona al personaggio uno sguardo "selvaggio" sì ma anche tenero e impaurito, e soprattutto riesce a "trattenere" dentro di sé più emozioni di quelle che esprime – manifesta un'evoluzione tanto più notevole perché in fondo, pur dipendendo dagli altri, non perde mai di vista sé stesso. La trasformazione sociale di Pućke passa anche dal suo rapporto con un particolare capo di vestiario, ossia le scarpe: all'inizio vi è ovviamente refrattario (l'istruttore Ilke fatica non poco a fargliene indossare per la prima volta un paio); un importante traguardo è raggiunto quando impara a mettersele e ad allacciarsele da solo; il suo primo lavoro fuori dall'istituto è come apprendista da un ciabattino; un altro momento di passaggio è quello in cui indossa gli stivali che gli regala il soldato bosniaco che lo prende con sé nella sua pattuglia; e infine, nel momento del ritorno alla natura, sfilarsi quegli stivali è la prima cosa che fa. Il regista, esordiente, fa un lavoro impeccabile e si mette umilmente al servizio della storia e degli attori. Ottimi anche gli altri interpreti: Pavle Čemerikić è Žika, Isidora Janković è Alisa, Miloš Timotijević è Ilke.

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