25 febbraio 2015

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (Roy Andersson, 2014)

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza
(En duva satt på en gren och funderade på tillvaron)
di Roy Andersson – Svezia 2014
con Holger Andersson, Nils Westblom
**1/2

Visto al cinema Uci Bicocca, con Sabrina.

Il film che ha vinto il Leone d'Oro all'ultima mostra di Venezia è la terza parte di "una trilogia sull'essere un essere umano", come segnala la didascalia introduttiva. Dopo "Canzoni dal secondo piano" e "You, the living", infatti, il regista Andersson ritorna – con il suo stile distintivo, caratterizzato dalla macchina da presa fissa, dall'assenza di primi piani, da inquadrature pittoriche (a metà fra i dipinti fiamminghi e l'iperrealismo di Edward Hopper) e da uno sguardo gelidamente cinico e disincantato (che a volte ricorda i Monty Python, ma senza le loro battute sarcastiche) – a riflettere sulle angoscie e sui problemi dell'umanità, da quelli più quotidiani e semplici (si pensi a tutti i momenti in cui una persona scambia banalità al telefono: "Sono contento di sentire che state tutti bene...") a quelli legati a un passato tragico, da rivivere o da rimuovere (e qui spiccano due sequenze, quella del re Carlo XII che con la sua armata si ferma in un bar prima di partire per la Russia, e quella dello schiavismo, che in qualche modo infrangono l'iperrealismo che domina il resto della pellicola). Insomma, il film tocca la stessa vastità di temi dei due lavori precedenti, ma si mostra anche un filino più programmatico nel voler essere "filosofico" a tutti i costi, a partire dal titolo stesso, abbastanza pretestuoso (e pretenzioso). Fra tante scene e personaggi (occasionalmente introdotti da scritte e titoletti), il filo conduttore è rappresentato da Jonathan e Sam, due tristissimi e depressi venditori di scherzi di carnevale. Uno perennemente burbero e l'altro piagnucolone, affermano di voler "far ridere la gente", ma fanno fatica a interessare qualcuno con la loro mercanzia obsoleta: denti da vampiro ("anche extralunghi"), un sacchetto con risata ("un classico") e la maschera da zio Dentone ("un articolo sui cui puntiamo molto"). Metafore del conformismo, dell'utilitarismo e dell'ipocrisia, che rispecchiano le tre modalità di "incontro con la morte" con cui si apriva la pellicola, simbolo di tre categorie della meschinità umana (rispettivamente la banalità, l'avidità e il cinismo). La sceneggiatura, che spazia libera e senza costrizioni da una scena all'altra, apparentemente scollegate ma che concorrono a costruire una sorta di quadro o di mosaico generale, salta spesso di palo in frasca, viaggia nel tempo e nel passato, mostra situazioni esistenziali dominate dalla fatalità, dalla sfortuna, dall'accettazione del destino, dall'angoscia di vivere (o di morire: si pensi alla canzone che Jonathan ascolta ripetutamente nella sua camera), sfiora temi come la mediazione del denaro nelle relazioni umane (il flashback nella taverna di Lotta la zoppa, la poesia sul piccione senza soldi, in generale il tentativo di Jonathan e Sam di fare affari con i loro gadget), la ciclicità, la percettività e la necessità del tempo (nei discorsi sul mercoledì), il conflitto fra giustizia e utilitarismo ("è giusto utilizzare gli altri per il proprio piacere?"). E occasionalmente vira all'improvviso sul surreale, come nelle suddette scene legate al passato, che fra l'altro ampliano il discorso delle miserie umane dall'individualismo alla collettività: quella del re che va in guerra contro i russi e quella del bizzarro organo musicale che fa riflettere sullo sfruttamento e la schiavitù. Da segnalare ancora una volta l'uso creativo della musica, per esempio con il tema di "John Brown's Body" ("Glory, glory, hallelujah!") utilizzato più volte e in maniera diversa (nella scena della taverna o nel canto dei soldati in marcia). Peccato solo che, anche a causa della struttura a vignette, in generale i personaggi restino delle macchiette, privi di una vera tridimensionalità: lo si riscontra anche nella scena forse più bella, quella già citata della taverna di Lotta, che sembra uscire da un musical. Al termine della trilogia, si può forse dire che il "Piccione" è il minore dei tre film. Ma resta comunque un'esperienza cinematografica unica e interessante.

2 commenti:

Marisa ha detto...

Pur uscendo dalla visione del film con una grande amarezza, rimane l'impressione di una poeticità che riscatta il cinismo e fa prevalere la pietà per questa umanità così fragile e spersa, aggrappata ad una falsa razionalità (bisogna mantenere in ordine il mondo contando bene i giorni: dopo il martedì viene con assoluta sicurezza il mercoledì...)
L'autodistruzione è sempre a portata di mano e la vicenda fallimentare di Carlo XII ricorda che per "l'Homo Sapiens" è sempre stato così, così come la stupidità e l'infelicità mascherata dal compiacimento che si sta tutti bene...
Il titolo mi fa poi venire in mente i versi di Rilke "...e i sagaci animali lo sanno che,di casa nel mondo interpretato non diamo affidamento..."
Se gli animali, compreso il piccione che a noi uomini non sembra poi il più intelligente, potessero riflettere sulla nostra esistenza, che figura faremmo?

Christian ha detto...

In realtà pare che invece il piccione sia nella top ten degli animali più intelligenti:

http://www.nextme.it/scienza/natura-e-ambiente/5072-10-animali-piu-intelligenti

Non a caso, può essere addestrato per essere usato come piccione viaggiatore! ^^

(In classifica ci sono anche i topi, come Douglas Adams aveva predetto nella sua "Guida galattica per gli autostoppisti").