16 aprile 2015

Il padre (Fatih Akin, 2014)

Il padre (The cut)
di Fatih Akin – Germania/Francia/Canada 2014
con Tahar Rahim, Makram Khoury
**1/2

Visto al cinema Arcobaleno.

L'odissea personale di Nazaret Manoogian (Tahar Rahim), fabbro della comunità armena di Mardil (città oggi nel nord dell'Iran, allora nell'Impero Ottomano) e giovane padre di due gemelle che nel 1915, quando la Turchia entra nella prima guerra mondiale, è costretto ad abbandonare la propria casa e la propria famiglia. Sopravvissuto al genocidio del suo popolo da parte dei soldati ottomani, e dopo aver perso la voce (per via di una ferita alla gola) e la fede in Dio (per aver assistito a troppi orrori), al termine della guerra troverà una nuova ragione di vita nella ricerca delle sue figlie, scampate allo sterminio di cui è rimasto vittima il resto della famiglia. Le loro tracce lo porteranno sempre più lontano: dapprima a Cuba e poi negli Stati Uniti. Il primo film di Akin ambientato nel passato è anche il suo lavoro finora più ambizioso, una coproduzione internazionale che il regista sceglie di dedicare al suo "maestro Martin Scorsese". Attraverso la rappresentazione di un dramma privato (il punto di vista è sempre quello del protagonista, che peraltro, essendo muto, non può condividere con lo spettatore i propri pensieri), illustra quello di un intero popolo (le comunità armene cristiane che abitavano nelle regioni dell'Anatolia orientale), soggetto alla deportazione, all'eliminazione e – per i sopravvissuti – all'esilio e alla diaspora. Dedicare un film a quel massacro, di cui proprio quest'anno cade il centenario e che il cinema in passato ha solo sfiorato (vedi "Il ribelle dell'Anatolia" di Elia Kazan), è sicuramente giusto e importante. Ma artisticamente non tutto funziona al meglio: schiacciata dal peso delle sue (buone) intenzioni, la pellicola scorre sui binari di una sceneggiatura fin troppo lineare, che alterna scene memorabili (da segnalare quella nel campo profughi, in cui Nazaret ritrova la cognata che gli chiede di porre fine alle sue sofferenze, e quella in cui assiste ad Aleppo a una comica di Charlie Chaplin, "Il monello", sequenza che ricorda il finale de "I dimenticati" di Sturges) ad altre più didascaliche o melodrammatiche, all'insegna di un'epica prolissa e retorica da kolossal vecchio stile. Per raccontare gli orrori della crudeltà umana, il regista sceglie la via più facile: li mostra sullo schermo direttamente e senza filtri. E se stragi e massacri colpiscono allo stomaco per il loro realismo, i momenti onirici (in cui la moglie e le figlie di Nazar giungono a dargli conforto) risultano forzati e fuori luogo. Il lungo viaggio di Nazar è punteggiato da una serie di incontri decisivi, a seconda dei casi buoni o cattivi: i tagliagole, il soldato che lo risparmia, i disertori, i beduini, il mercante di sapone (una sorta di Schindler siriano, che ospita i rifugiati nella sua fabbrica), il barbiere cubano, gli operai delle ferrovie, e così via. In positivo, oltre agli scenari di mezzo mondo (dai deserti del medio oriente alle nevi del North Dakota, passando per le strade di Cuba e le paludi della Florida), da segnalare la suggestiva colonna sonora di Alexander Hacke, che fonde musica elettronica e brani popolari della cultura armena. Il titolo originale, che recita "Il taglio", non si riferisce solo alla ferita che rende muto il protagonista, alla sua forzata separazione dalla famiglia e dalla patria, o alla "rottura" con Dio (concetti, questi, che pure "Il padre" potrebbe esprimere), ma anche direttamente al genocidio armeno, una profonda ferita inflitta all'umanità intera. L'attore protagonista si era già visto ne "Il profeta" di Audiard. Alla sceneggiatura c'è anche Mardik Martin, già collaboratore del citato Scorsese. Pur essendo di origine turca, Akin lavora in Germania: altrimenti non avrebbe avuto modo di realizzare un film del genere, visto che la Turchia non riconosce tuttora la reale portata dello sterminio.

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