20 dicembre 2016

Il cerchio (Jafar Panahi, 2000)

Il cerchio (Dayereh)
di Jafar Panahi – Iran 2000
con Nargess Mamizadeh, Fereshteh Sadre Orafai
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Visto in divx.

Diverse storie, tutte con protagoniste femminili, si intrecciano nell'arco di una sola giornata a Teheran. Si comincia con l'audio di un parto, sui titoli di testa. In un ospedale, la madre della partoriente apprende con delusione che la neonata è una femmina, e teme che la famiglia del marito di lei, che desiderava un maschio, la ripudierà. Si prosegue seguendo tre ragazze che sono appena uscite di prigione, e cercano di procurarsi il denaro per la corriera che le porterà nel villaggio di una di loro; un'altra detenuta è evasa perché incinta e vorrebbe abortire; una madre, rimasta da sola, tenta di abbandonare la propria figlia; una ragazza è arrestata per prostituzione; il cerchio si chiude a tarda sera, in una cella, quando dalla finestrella della porta (simile a quella dell'ospedale nella scena introduttiva) si sente lo stesso nome della ragazza che al mattino stava partorendo. Terzo film di Panahi (il primo non incentrato sui bambini), vincitore del Leone d'Oro alla mostra del cinema di Venezia, è probabilmente il più celebre dei tanti film sul tema della condizione (e dell'oppressione) delle donne in Iran. Non soltanto senza un uomo (il marito o un parente) al fianco non possono fare niente (dall'affittare una stanza in albergo a viaggiare da sole, fino al semplice fumare in pubblico!), ma alla minima trasgressione rischiano di essere ripudiate dalle proprie famiglie ed emarginate dalla società, costrette poi a gesti disperati. Soltanto una vaga rete di solidarietà interna le aiuta a stare a galla (le varie ragazze uscite dal carcere si aiutano a vicenda; ma c'è anche chi, come l'infermiera, cerca in tutti i modi di tenere nascosto il proprio passato). Costruito su una serie di long take che si fanno via via sempre più intensi (con uno stile di ripresa differente per ogni protagonista: si passa dalla camera a mano al dolly, dalle inquadrature statiche a quelle in costante movimento), dietro l'ambientazione apparentemente semplice e neorealista il film è complesso, stratificato (eccezionale, come sempre, il lavoro sul sonoro) e magistrale nella messa in scena, per esempio mostrando per contrasto svariate situazioni che permettono di confrontare il trattamento delle donne con quello degli uomini (quando una coppia viene sorpresa in auto, per esempio, la donna è arrestata e l'uomo solo redarguito; e nel furgone della polizia, al detenuto maschio viene concesso senza troppe discussioni di fumare, mentre alla donna no). E soprattutto, non è mai retorico nella sua denuncia di un mondo dove alle donne non è permesso nemmeno di espiare le proprie colpe (ogni forma di riabilitazione è preclusa). Gran parte delle interpreti non erano attrici professioniste (le uniche due eccezioni sono Fereshteh Sadre Orafai, che interpreta Parì, la ragazza incinta, e Fatemeh Naghavi, la madre che abbandona la figlia). Nonostante il premio a Venezia, dove venne peraltro iscritto senza il permesso del ministero della cultura, il film (coprodotto da Italia e Svizzera) non fu particolarmente gradito dalle autorità iraniane, che ne proibirono la proiezione: negli anni seguenti, Panahi ebbe sempre più problemi con la censura e il governo, fino agli arresti nel 2003 (quando gli fu "consigliato" di espatriare, ma lui rifiutò) e nel 2010.

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